Fat White Family - The Whitest Boy On The Beach
Una cosa nuova. Loro stessi hanno definito questo nuovo album "un invito, inviato dalla miseria, a ballare sul beat dell'odio umano". Sono trascorsi soli 32 mesi tra il disco di esordio, Champagne Holocaust, e il secondo album, Songs For Our Mothers, tempo durante il quale i Fat White Family sono passati dai pub militanti sprovvisti di palco agli apprezzamenti del direttore di the Quietus, hanno conquistato la copertina del New Musical Express (NME) fino ad arrivare alla vincita del Philip Hall Radar Award, il premio dato ogni anno al miglior emergente scelto dai redattori di NME. Mesi durante i quali la stampa si è concentrata spesso più sull'attitude della band che sull'effettivo valore musicale, dimenticando che i fratelli Lias e Nathan Saudi, e, soprattutto, Saul Adamczewski, hanno talento da vendere.
Se, come me, avete avuto la fortuna di vederli dal vivo lo scorso novembre al Covo Club ve ne sarte accorti: sono cattivi, sporchi, con un aspetto malaticcio, vengono dalle scuole d'arte e ricordano molto più i Clash che i Libertines. Imperdibili.
La traccia di apertura Whitest Boy On The Beach è forse il raccordo con il disco di esordio, dove le chitarre e i synth scandiscono ancora un tempo sostenuto, prima della discesa verso le tenebre, sia dei suoni, sia dei testi del nuovo album.
Se, come me, avete avuto la fortuna di vederli dal vivo lo scorso novembre al Covo Club ve ne sarte accorti: sono cattivi, sporchi, con un aspetto malaticcio, vengono dalle scuole d'arte e ricordano molto più i Clash che i Libertines. Imperdibili.
La traccia di apertura Whitest Boy On The Beach è forse il raccordo con il disco di esordio, dove le chitarre e i synth scandiscono ancora un tempo sostenuto, prima della discesa verso le tenebre, sia dei suoni, sia dei testi del nuovo album.
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