Perché la dissolvenza è scomparsa?


Con l'avvento delle nuove tecnologie diverse cose in campo musicale sono cambiate: non solo il modo di fruire la musica ma anche l'evoluzione della musica stessa introducendo nuove tecniche e rendendo obsolete altre.
Tra quelle ormai cadute in disuso vi è la dissolvenza, ovvero la lenta diminuzione di volume di un brano durante la sua conclusione. Fino a venti anni fa era molto in voga, tutte le canzoni nella top 10 del 1985 terminavano così, ma a partire dagli anni '90 sono stati introdotti finali più netti e concisi, fatta eccezione per brani palesemente di gusto retrò.


E' nel 1820, con Gustav Host, che inizia la storia della dissolvenza, con metodi a dir poco analogici: durante l'esecuzione del movimento "Neptune", il compositore mette infatti un coro femminile in una stanza la cui porta si inizia a chiudere in maniera quasi impercettibile, fino a che il suono arriva agli spettatori lontano ed ovattato. 

Successivamente si è cercato di ricreare questo particolare effetto in diversi modi, come ad esempio allontanando progressivamente il fonografo dalla sua fonte. Tra gli esempi di questi primi esperimenti si possono trovare in "Spirit of '76" una registrazione del 1894 della Berliner Gramophone in cui si sente una banda di fiati e percussioni avvicinarsi e allontanarsi o in "Beyond the Blue Horizon", un brano di George Olsen del 1930 che termina con il passaggio di un treno.

George Olsen - Beyond the Blue Horizon

Quando la registrazione elettronica fa il suo ingresso negli anni '20 e quella su nastro magnetico tra i '40 e i '50 poi, gli ingegneri del suono cominciarono ad utilizzare la dissolvenza per fini pratici: la tecnica permetteva infatti di abbreviare le canzoni per farle stare in un lato solo del vinile o per venire incontro alle esigenze delle radio, che volevano mandare in onda più canzoni possibili.

La registrazione aveva dunque cambiato la fruizione della musica: non era più soltanto un modo di documentare le performance dal vivo, ma anche una sorta di forma d'arte che il mondo della musica pop fu veloce ad utilizzare. E chi furono i primi a sperimentare?

Ma ovviamente i Beatles! I Fab Four iniziarono infatti a sostituire le chiusure nette con finali più creativi, registrando alcune fra le dissolvenze meglio riuscite di tutti i tempi come, ad esempio, in "Helter Skelter" e "Hey Jude".


Un altro ottimo esempio si trova in “Life During Wartime” dei Talking Heads, che finisce con la voce di David Byrne che canta un’intera nuova strofa, lasciando che l'ascoltatore si domandi quante strofe ci siano ancora nella canzone.


Ma perché negli ultimi venti anni è sparita progressivamente dalla nostra musica?

Molto probabilmente per via delle nuove tecnologie e dei nuovi modi di ascoltare la musica, dall'introduzione dell'iPod nel 2001 fino ad arrivare alle playlist di Spotify e simili: il gesto più associato all'ascolto musicale è infatti lo skip, cioè il passare velocemente ad un'altra canzone nella lista.

Nel laboratorio musicale dell’Università della Musica di Hannover sono stati condotti anche degli studi per capire meglio l'impatto della dissolvenza sugli ascoltatori: alcuni studenti sono stati sottoposti ad un test in cui dovevano tenere il tempo della canzone con la mano. Quelli che stavano ascoltando una canzone che terminava con la dissolvenza hanno continuato a battere con la mano per circa 1.4 secondi in più rispetto a quanti avevano ascoltato una canzone con un finale troncato dimostrando così che in qualche modo la dissolvenza permette ad un brano di continuare oltre il suo limite fisico. 

Probabilmente anche la dissolvenza, come tutte le mode, tornerà in voga.



Sharon Jones & the Dap-Kings - Stranger To My Happiness: dall'album del 2014 Give the People What They Want

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